Come ho già detto in Aula, i miei primi ricordi dell’olocausto li devo ai racconti di uno zio, scampato al campo di sterminio: ero piccola e solo da adulta mi sono resa conto che quelle che a me apparivano come scene di un brutto film, per lui erano un’ossessione, qualcosa che neanche il tempo avrebbe lenito e men che mai fatto dimenticare. La giornata della memoria non serve a chi ha vissuto quei giorni, ai loro parenti, al popolo ebraico. Loro non dimenticano.
Serve a noi e quello che celebriamo oggi non è uno stanco rito e neanche un’inutile commemorazione, e anzi, mai come adesso il 27 gennaio assume un significato che va oltre il simbolo, oltre la memoria.
Sessantanove anni fa, il 27 gennaio 1945, venivano abbattuti i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz e il mondo occidentale seppe quello che forse si sospettava ma la cui portata non era immaginabile.
La condanna di quell’orrore che portò allo sterminio di oltre 6 milioni di persone, alla atroce e scientifica eliminazione di uomini, donne, bambini, dovrebbe essere unanime e scontata.
Non dovrebbe esistere nel nostro bel mondo civilizzato qualcuno che osi mettere in discussione il genocidio, o peggio ancora augurarsi che possa ripetersi.
E invece non è così.
Nei giorni scorsi a Roma si sono verificate delle gravissime intimidazioni nei confronti della comunità ebraica che fanno vergogna al nostro Paese-
Ovunque nelle nostre città tornano scritte razziste che non possono semplicemente essere liquidate come l’opera di qualche imbecille. In momenti di crisi e malessere sociale, infatti, c’è sempre la tendenza a cercare un capro espiatorio, che è sempre l’altro: l’ebreo, l’immigrato, il disabile, l’omosessuale, i rom.
Per questo non bisogna sottovalutare questi odiosi fenomeni e permetterci di abbassare la guardia. La spirale d’odio se non viene subito fermata genera maggior odio e il passo verso la violenza è breve.
Il nostro dovere non è solo quello di condannare e di prendere le distanze, ma anche e soprattutto di impedire che certi episodi possano ripetersi.
La conoscenza e la consapevolezza di quanto è avvenuto è il primo passo contro i rigurgiti di negazionismo e quanto è stato fatto e si fa nelle nostre scuole è un importantissimo lavoro per abbattere l’ignoranza. La tragedia della deportazione e del genocidio, così come l’adozione delle leggi razziali fanno parte della nostra storia, del nostro passato, è la nostra pagina nera, la nostra vergogna. Non appartiene solo al popolo ebraico e alla Germania nazista, ma come afferma Elena Loewenthal, siamo noi tutti che dobbiamo ricordarla, in Italia, come in Europa, «perché quella storia è imprescindibile» dalla nostra «identità collettiva». Cosi come non dobbiamo dimenticare che accanto al genocidio degli ebrei c’è stata anche la porrajmos (parola equivalente) degli zingari, la soppressione di omosessuali, e disabili ecc. E’ un dovere ampliare il ricordo a tutte le vittime dei campi di sterminio nazisti; questo ricordo non diluisce la tragedia della Shoah ma la incardina al contrario in una memoria del fenomeno totalitario nazifascista che lega assieme diverse memorie e diverse tragedie.
Conoscere e sapere tutto, però a volte non basta. Il seme dell’intolleranza, che oggi trova amplificazione in Internet e nei vari social network, fa presto ad attecchire e gli episodi razzisti a moltiplicarsi per opera di sciocchi emuli.
Nei confronti di questi episodi non ci può essere tolleranza, né comprensione. Bisogna intervenire subito, con unanime condanna.
Perché è compito nostro, dei nostri figli e delle nostre figlie, e delle generazioni che verranno, tramandare la memoria, tramandare l’orrore, affinché quanto è avuto non possa davvero accadere mai più.
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