Qualche giorno fa abbiamo celebrato i 40 anni della legge sul divorzio, promossa dal socialista Loris Fortuna e dal liberale Antonio Baslini e approvata nel dicembre del 1970. Una legge sofferta, osteggiata a lungo dall’allora DC, ma non dall’elettorato cattolico che, infatti, bocciò il referendum abrogativo del '74, dimostrando che il Paese reale è spesso diverso, più avanti di quanto la politica immagini.
La legge di 40 anni fa, quasi identica a quella di oggi se non per la riduzione dei tempi per il divorzio da cinque a tre anni, prevede due fasi prima di arrivare allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Nella prima fase, quella della separazione, la coppia deve rivolgersi al Tribunale; una volta pronunciata la sentenza di separazione e trascorsi tre anni dalla stessa, deve essere promosso un secondo giudizio, quello per il divorzio. Solo quando la sentenza di divorzio è passata in giudicato – e a volte avviene dopo molti anni –, il matrimonio è sciolto.
Questa complessa procedura comporta due giudizi, due sentenze, due difensori da pagare e, per i casi in cui la separazione sia consensuale, una media di almeno cinque anni di attesa. Considerato che in genere difficilmente si registra il consenso da parte di ambedue gli ex coniugi, per la sentenza occorrono a volte anche dieci, dodici anni.
Obiettivamente la legge in vigore appare “disconnessa”, lontana dalle esigenze delle coppie che decidono di non continuare un percorso di vita insieme e vogliono garantirsi la possibilità di ricostruire nuovi percorsi affettivi.
Il Parlamento non può che prenderne atto e trovare nuove soluzioni sul piano legislativo. Quello che allora fu voluto dal legislatore, il doppio percorso e i tempi lunghi, come deterrente allo scioglimento del vincolo, oggi appare un anacronistico ostacolo anche alla formalizzazione delle scelte di vita che nel frattempo sono maturate.
Invece il Presidente della CEI, cardinale Angelo Bagnasco, ha definito “utile” e “necessario” questo doppio iter procedurale, sostiene che serve a far decantare “l’emotività e le situazioni di conflitto”. Questa sua affermazione è smentita dai numeri visto che solo il 2% delle coppie che si separa poi si riconcilia e torna a vivere insieme. Chi si rivolge al Tribunale ha già maturato una scelta con convinzione, quindi non possiamo che prenderne atto.
E’ un esame di realtà che ci impone di cambiare questa legge riducendone i termini e non, come qualcuno ha sostenuto, “la banalizzazione del matrimonio”. Esame di realtà e battaglia di civiltà giuridica e sociale insieme.
Ho accennato prima alla bassa percentuale, pari al 2%, delle coppie che si riconciliano dopo aver avviato un percorso di separazione. Gli ultimi dati dell'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) relativi al 2011 ci dicono che, a fronte di 88.191 separazioni, i divorzi assommano a 54.160. Numeri in costante crescita che contribuiscono ad appesantire i tempi della giustizia proprio in ragione di iter procedurali troppo lunghi. E’ una preoccupazione che abbiamo e ci risulta abbia anche il Ministro della Giustizia.
Una giustizia, per essere giusta, deve prevedere anche tempi “giusti”. Per questa ragione abbiamo presentato un emendamento che prevede che, nel caso in cui non vi siano figli minori, i coniugi possono domandare congiuntamente lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio anche se non sia stata proposta domanda di separazione; proponiamo anche nel nostro Paese quello che è già una realtà in altri Paesi europei ed extraeuropei.
L’obiettivo che ci proponiamo con questa nuova legge è di snellire le procedure burocratiche, incentivare le separazioni consensuali e ridurre i litigi in tribunale garantendo anche il benessere dei figli.
In Italia abbiamo un problema di tempi, di costi e di “ingolfamento” degli uffici giudiziari. Dei tempi abbiamo già detto; quanto ai costi, in Italia sono assai più gravosi di quelli sostenuti in quasi tutti gli altri Paesi europei, tanto che da qualche anno si è andato affermando il «turismo da divorzio». Alle coppie che oltrepassano il confine per «sfilarsi la fede dal dito» basta affittare un appartamento per avere una residenza temporanea, ad esempio in Olanda, Belgio, Gran Bretagna e Germania, e ottenere così il divorzio in pochi mesi, o come in Romania, Spagna, Bulgaria ove sono sufficienti circa 48 ore. Una volta “divorziato” in quei Paesi, allo Stato italiano non resta che prenderne atto.
La fine del matrimonio così ottenuta sarà legale anche in Italia, in base al regolamento CE 44 del 2001, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale. Nella sostanza una sentenza esecutiva in un Paese dell’Unione Europea lo diventa automaticamente in Italia.
Il tutto a un costo medio di 3.000 euro. Sta accadendo quello che è avvenuto e ancora avviene con la legge 40 del 2004 sulla fecondazione assistita: si sta creando una nuova forma di turismo per aggirare la legge italiana.
Le nostre preoccupazioni si aggiungono a quelle del Ministro della Giustizia che in Commissione Giustizia al Senato ha parlato di quattro emergenze da affrontare subito: l’arretrato civile, il sovraffollamento carcerario, la mancanza di personale, la lotta alla criminalità organizzata.
Per quanto riguarda l’arretrato civile abbiamo ben presente che ci sono oltre cinque milioni di processi pendenti; a quanto abbiamo letto, le intenzioni del Ministro per le cause pendenti che ingolfano i tribunali prevedono procedure alternative o trasferite in una sede arbitrale. Rientrano tra queste le separazioni e i divorzi. Noi ce lo auguriamo.
La previsione è che «l’accordo dei coniugi assistiti dagli avvocati superi la necessità dell’intervento giurisdizionale, tranne nei casi di presenza di figli minori o portatori di grave handicap». A noi sembra una giusta direzione e ci auguriamo che il Ministro assuma al più presto una iniziativa in questa direzione.
Al più presto per il lavoro del Ministro della Giustizia, al più presto per il lavoro del Parlamento. Da molti anni, siamo alla terza legislatura, la legge sulla riduzione dei tempi per il divorzio vaga senza esito in Parlamento, ma ora sembra che sia la volta buona.
Ci auguriamo pertanto che il provvedimento che ci accingiamo ad approvare alla Camera non venga affossato in Senato, così come è accaduto per la legge contro l’omofobia, e che faccia da ariete per riportare all’attenzione del dibattito parlamentare i temi dei diritti civili ed eticamente sensibili che da troppo tempo attendono risposte.
>> il testo della proposta di legge
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