domenica 8 marzo 2015

8 marzo, c’è ancora tanto da fare

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È l’8 marzo in India, dove l’ennesima ragazza stuprata dal branco si è suicidata quando si è resa conto che la polizia stava manovrando per trasformare lo stupro di gruppo da lei subito in quello di una sola persona, e dove il nuovo governo ha proibito la diffusione del documentario, realizzato dalla regista britannica Leslee Udwin, sulla vicenda di un’altra studentessa stuprata e uccisa, nel quale c’era tra l’altro un’agghiacciante intervista all’autista del bus Mukesh Singh, uno dei responsabili della morte della giovane, che incolpava la vittima di essersela cercata.
È l’8 marzo in Mauritania, dove Meriam Cheikh è dal novembre scorso è in carcere, per aver protestato contro gli arresti indiscriminati di dirigenti e membri della sua associazione che si batte contro la schiavitù, ancora vigente in quel Paese sebbene vietata per legge, e che ora si trova in regime di isolamento per aver rivendicato il diritto alla dignità propria e delle altre detenute, abitualmente vessate e molestate dal personale carcerario.
È l’8 marzo in Turchia, dove l’11 febbraio Aslan Özgecan è stata violentata e uccisa dall’autista dell’autobus che la riportava a casa tornando dall’Università e dove le donne ma anche uomini in minigonna hanno manifestato per protestare contro i femminicidi cresciuti del 40% solo nell’ultimo anno.
È l’8 marzo negli Stati Uniti, dove qualche giorno fa Christine Lagarde, oggi alla guida del Fondo Monetario Internazionale, ha lanciato l’allarme contro il “sessismo sul lavoro”, parlando di “complotto contro le donne” e di “insidiosa congiura” anziché “pari opportunità”, e dove dal palco degli Oscar l’attrice Patricia Arquette ha parlato del divario di genere legato agli stipendi.
È l’8 marzo in Italia, dove a oltre un anno dall’approvazione della legge contro il femminicidio siamo ancora in attesa del famoso piano antiviolenza del Governo; dove le donne continuano a essere massacrate di botte da mariti e fidanzati; dove abbiamo dovuto ancora combattere per far approvare una legge elettorale che garantisca la piena parità di genere; dove, quando la presidente della Camera organizza un importante convegno sul linguaggio sessista e sulle immagini pubblicitarie ancora piene di stereotipi contro le donne, suscita commenti sarcastici da chi ignora che parole e immagini che non sono innocenti e neutre. Mai.
Solo qualche esempio, e potrebbero essercene molti altri, per riempire di contenuti questa festa che non è solo una festa, solo il giorno delle mimose e delle serate tra amiche.
L’otto marzo 1908 era stato il giorno del “Pane e delle Rose”: 15 mila donne di New York manifestarono per chiedere pane, cioè lavoro e salario, ma anche rose, cioè tempo libero, diritti per l’infanzia, dignità e rispetto.
A Copenhagen, nel 1910, un congresso internazionale di donne socialiste proporrà una giornata internazionale, sancita definitivamente nel calendario in ricordo di New York e della… rivoluzione russa, sì, ma quella di febbraio, marzo per gli ortodossi, che nessuno oggi ricorda, abdicazione dello zar e voto alle donne, speranze di libertà prima del capolinea del più famoso ottobre.
Da quella data le donne hanno continuato a progredire ma la loro marcia, che sembrava trionfale, negli ultimi anni si è fatta faticosa, millimetrica: i “soffitti di vetro” sono ancora qui, durissimi. Ho visto nuove giovani donne sbuffare per la frivolezza dell’otto marzo, ormai banalizzato in spogliarelli maschili e pubblicità di regali, mentre la vita si faceva sempre più dura, tra precarizzazione del lavoro e nuovi gallismi, pane “a progetto” e rose ancora proibite per le madri singole, le donne infertili, le ragazze vittime della pressione che le vuole tutte letterine o veline.
Pane e rose: le donne sembrano saper mescolare politica e vita, ragioni del pubblico e ragioni del privato, in modo da arricchire entrambe le sfere, vissute invece dagli uomini con troppo rigida divisione.
Anna Kuliscioff, che forse tante giovani donne non conoscono, rimane per me il simbolo di questo modo di vivere l’impegno pubblico, non come sacrificio dei sentimenti ma come unione di cuore e ragione, libertà e felicità. E non cito a caso questa figura: è il ricordo di una, oggi diremmo, extracomunitaria, morta a Milano nel 1925, che trovò in questa città una nuova patria. Cosa avrebbe pensato vedendo l’Italia di oggi pronta ad espellere famiglie extracomunitarie se il capofamiglia perde il posto di lavoro a causa della crisi, o a respingere i barconi di disperati che arrivano sulle nostre coste sfuggendo alle guerre e alle persecuzioni? E cosa penserebbe lei, che lottò tutta la vita per il suffragio femminile, scoprendo che, a oltre sessant’anni dal voto alle donne, soltanto una su tre parlamentari è donna? E cosa direbbe delle donne italiane spesso, troppo spesso, ancora rappresentate dalle veline?
C’è ancora tanto da fare, ma le donne, al di là degli schieramenti politici, hanno già dimostrato che quando si uniscono e fanno rete, insieme possono farcela.
Buon 8 marzo.
Pia Locatelli

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